Per arrivare a questo ambizioso traguardo, il settore industriale europeo dovrà diventare verde, circolare e digitale, e contemporaneamente si dovranno installare 40 GW di elettrolizzatori per poter produrre, entro il 2030, 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde.
Secondo la strada indicata dalla UE entro il 2050, l’idrogeno verde potrebbe rappresentare fino al 24% dei consumi di energia.
Attualmente l’idrogeno prodotto viene indicato mediante colori (verde da rinnovabili, viola o rosa da nucleare, blu da metano con CCS, ecc) ma sarebbe più semplice e utile nominarlo in base alle emissioni di CO2 ovvero H zero (zero emissioni) H LE (low emission o basse emissioni) o H fossile.
Posto l’obiettivo comune, di riduzione delle emissioni, nei principali paesi europei ci si muove in modo diverso.
In linea generale, i Paesi dell’Europa orientale considerano il gas metano come combustibile di transizione, per questo potrebbero puntare verso la produzione di idrogeno con cattura e stoccaggio della CO2.
Mentre nelle altre nazioni come la Francia si punterà alla produzione di idrogeno verde, in particolare il governo francese destinerà alla sua produzione circa 7,2 miliardi di euro per realizzare una capacità di generazione da 6,5 GW entro il 2030.
La produzione di idrogeno verde, etichetta che viene assegnata alla produzione sostenuta da rinnovabili (in realtà è molto probabile l’uso dell’energia nucleare) sarà la fonte di alimentazione primaria per gli impianti di elettrolisi.
La Germania, invece, investirà nel comparto 9 miliardi di euro portando la capacità di elettrolisi a 5 GW entro il 2030 e 10 GW entro il 2040. Il piano non contempla solo l’idrogeno verde ma anche quello “blu“.
In Gran Bretagna si punterà oltre che dall’idrogeno zero anche dall’idrogeno prodotto con reforming del metano e cattura della CO2.
Per la metà degli anni 2020 dovrebbero essere realizzati 300 MW col progetto HyNet nel nord-ovest dell’Inghilterra (che potrebbero arrivare a 1500 MW nel 2030) e altri 200 MW col progetto Acorn, in Scozia.
Il gruppo energetico norvegese Equinor intende costruire in Gran Bretagna il più grande impianto del mondo per la produzione di idrogeno blu, ovvero idrogeno prodotto con reforming del metano e cattura (CCS) della CO2.
In Italia, col Governo Conte II, alla transizione energetica erano destinati in modo generico 18,22 miliardi di euro, per aumentare la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e lo sviluppo di una filiera industriale in questo ambito, inclusa quella dell’idrogeno e la mobilità sostenibile.
Le risorse provenivano (provengono) da Recovery Plan italiano, innovation fun e IPCEI (importanti progetti di interesse europeo comune).
L’attuale governo Draghi destina 23,7 miliardi di euro la transizione energetica e la mobilità sostenibile, nello specifico all’obiettivo di “incrementare la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili” 6,91 miliardi di euro con particolare attenzione allo sviluppo di biometano (1,92 miliardi).
Alla “produzione, distribuzione e usi finali dell’idrogeno” invece vengono destinati 3,19 miliardi di euro, in un aumento di circa 1,19 miliardi rispetto al precedente governo; 500 milioni per la produzione di H2 in aree industriali dismesse; 2 miliardi per l’utilizzo dell’idrogeno in settori hard to abate; 230 milioni per creare lungo il Paese stazioni di ricarica di idrogeno per il trasporto stradale; 300 milioni per fare altrettanto con il trasporto ferroviario; 160 milioni per la ricerca sull’idrogeno.
Attualmente però non abbiamo abbastanza produzione di energia rinnovabile. Ogni anno in Italia si installano appena mille megawatt di nuove rinnovabili. Per arrivare in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione che ci siamo dati dovremmo installarne 6000, 7000 all’anno.
Nel 2020, la potenza di rinnovabili installata è crollata del 35 per cento rispetto all’anno precedente, con una potenza complessiva pari a 785 MW di impianti realizzati tra le diverse tecnologie (è cresciuto solo il comparto idroelettrico con un +60 per cento, mentre hanno subito delle riduzioni l’eolico, il fotovoltaico e le bioenergie).
Uno dei freni allo sviluppo delle rinnovabili è rappresentato da un quadro normativo poco chiaro o incompleto che sta bloccando molte imprese del settore e che non favorisce certamente gli investimenti e rallenta il processo di sostituzione delle tecnologie.
Il settore energia nel suo complesso non attende solo il Decreto FER 2, ma anche il decreto sui certificati bianchi, decreto controlli bis che dovrebbe finalmente fare chiarezza su regole e modalità con cui il Gse effettua i controlli sugli impianti rinnovabili, dal 2011 è atteso il decreto sui prezzi minimi garantiti per le bioenergie.
Dallo scenario sopra descritto ne consegue quanto sia difficile avere in tempi brevi una produzione di idrogeno zero ma anche per la produzione di idrogeno LE o fossile ci sono molte criticità, soprattutto per quanto riguarda la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS). Ad oggi, infatti, non esistono impianti attivi per la CCS, né le infrastrutture che permetterebbero di trasportare la CO2. Produrre idrogeno LE (o fossile) quindi è praticamente ancora impossibile. Un esempio dell’insostenibilità del CCS ci viene dall’impianto Petra Nova (Texas,US). L’impianto, costato 195 milioni di dollari, è stato inaugurato nel 2016 dall’Amministrazione Trump ma già all’inizio di quest’anno (2021) è stato chiuso perché troppo costoso, non solo ma i risultati ottenuti sono stati molto al di sotto delle aspettative. Si prevedeva una riduzione delle emissioni del 90%, ma si catturava solo il 7% della CO2.
L’Unione europea è già consapevole dell’inefficienza della CCS: tra il 2008 e il 2017 ha finanziato 424 milioni di euro per sei progetti di CCS non riusciti – a esclusione di uno che comunque non ha soddisfatto le aspettative – e per questo è stata criticata dalla Corte dei Conti europea.
Altra critica avanzata alla CCS riguarda una delle sue applicazioni principali: l’anidride carbonica verrebbe pompata in vecchi pozzi petroliferi per recuperare il petrolio difficile da estrarre, con ulteriori benefici economici per le industrie petrolifere e un incremento della disponibilità del fossile.
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