Presidente, colleghe e colleghi,
anche da una lettura attenta e approfondita di questo provvedimento, è veramente difficile trarne un’idea, seppur vaga, di competitività. È difficile comprendere come un decreto “omnibus” – che pretende di spaziare in settori complessi e molto distanti tra loro, con il solito approccio emergenziale – possa incidere con efficacia e positivamente su un aspetto del sistema Italia come la competitività. La competitività è una componente importante che richiederebbe una seria e approfondita riflessione e un senso di responsabilità proprie della gravità della situazione che ci troviamo di fronte. L’Italia è tra i paesi sviluppati che stenta maggiormente a risollevarsi dalla fase recessiva che negli ultimi anni, a partire dal 2008, ha colpito le economie occidentali. Al primo trimestre di quest’anno, l’Istat rilevava oltre tre milioni di disoccupati, pari al 12,9 per cento, il più alto mai registrato dall’istituto, con un tasso di disoccupazione giovanile pari al 42,24 per cento. Mentre il sistema industriale e manifatturiero ha registrato un progressivo arretramento: a giugno 2014, la distanza dal picco di attività pre-crisi dell’aprile 2008 si attestava a –23,5 per cento. Ed è dei giorni scorsi la doccia fredda che giunge dal Fondo monetario internazionale che ridimensiona le aspettative di ripresa di questo Paese per il 2014, stimando un misero +0,3 per cento, contro il precedente +0,6% di aprile. Il dato segue le stime ancora più deboli di Bankitalia che non superano il +0,2 per cento. Sembra che sia solo il Governo a non accorgersi che la nostra economia è affetta da una profonda crisi di sistema che non si risolve a forza di slogan. Qui la parola “competitività” è usata come uno dei tanti “mantra” di cui il presidente del consiglio dei ministri è assai generoso: parole vuote, che non costano niente, utili a dare una soluzione di facciata per rattoppare alla bell’e meglio una barca che fa acqua un po’ ovunque. Noi siamo in attesa che il Governo e i ministeri competenti, oltre agli annunci spot, ci spieghino qual è la loro visione su alcune questioni cardine, come l’ammodernamento del sistema produttivo, il sistema energetico, l’industria, l’occupazione.
Non si può parlare di “competitività” in un documento che parla di tutto, dall’agricoltura, al sistema energetico, sino ai concorsi a premi dei supermarket e alla qualità delle buste della spesa. Ciascuna delle questioni affrontate ha necessità di una strategia d’intervento specifica, in considerazione sia dei ritardi accumulati dal nostro paese sia delle sfide che siamo chiamati ad affrontare. Questo è necessario soprattutto quando si interviene in ambiti così ampi e complessi come l’agricoltura, l’ambiente, le attività produttive e le finanze. Settori che, in alcuni casi, attendono anche una prima e approfondita programmazione. Invece di tutto questo, si sta reiterando il malcostume di pensare alle criticità immediate, scaricando sulle generazioni future le emergenze di oggi, che ovviamente vanno affrontate ma non confuse con una seria attività di pianificazione.
Questo documento è la fotografia dei ritardi delle Istituzioni e dello scollamento che queste stanno registrando con il paese reale. Da una parte c’è un’Italia che, anche con coraggio e tra mille difficoltà, è costretta ad andare avanti e non si arrende. Un’Italia in cui ci sono innumerevoli situazioni critiche, di profondo disagio, con drammi quotidiani, ma anche con realtà all’avanguardia ed eccellenze del sistema produttivo. Dall’altra c’è un Governo che, invece di guidare il paese, di indicare una strada e dare certezze, con affanno stenta a stargli dietro. Un Governo che intervenire “ex post” a sanare, a correggere, a tamponare. Molto spesso compromettendo definitivamente i problemi generati da ritardi o errori nella programmazione.
Non si spiegherebbero in altro modo alcuni interventi che, lungi dal dare indicazioni chiare per il presente e per il futuro, compromettono anche ciò che era stato già deciso per il passato.
Un esempio, tra i tanti, è la questione dello spalma incentivi, prevista all’articolo 26 del decreto. E lo cito perché è il classico esempio delle due Italie, quella vista dal Governo e quella reale: una lenta che sta dietro a un paese che, a proprie spese e rischiando, cerca di segnare la strada dello sviluppo. Quello energetico è uno di quei settori altamente strategici per un paese che vuole essere moderno, efficiente e, appunto, competitivo. Questo perché le innovazioni tecnologie offrono la possibilità di orientarci verso un più ampio ventaglio di proposte, tra cui i sistemi a basso costo e a basso impatto ambientale, con maggiori risparmi e maggiore efficienza. Ricordando sempre che l’energia pulita è un risparmio sull’ambiente e sulla salute dei cittadini. Inoltre, non secondario, c’è l’aspetto etico e ambientale portato avanti dalle istituzioni internazionali, tra cui l’Unione europa con la disponibilità di risorse economiche per l’abbattimento delle emissioni nocive, per la riduzione delle dispersioni e per l’efficientamento dei sistemi.
Sembra fatto apposta, ma visto che è una questione cardine, di primaria importanza in Italia manca ovviamente un serio piano energetico che indichi un percorso chiaro non più basato sullo sfruttamento idrocarburi. In compenso abbiamo il decreto competitività che ci illustra chiaramente l’unica strategia di questo governo: la politica “stop and go”. E così vengono riscritte le regole anche per il passato. L’articolo 26 ridefinisce appunto la questione degli incentivi, spalmandoli su un periodo più lungo e quindi riducendoli andando a danneggiare quelle aziende che in passato, in base a un attento calcolo degli incentivi, avevano programmato gli investimenti nel fotovoltaico. Invece di puntare sulle rinnovabili, le si penalizza mantenendo in piedi un sistema energetico vecchio, inquinante e dimensionato per un altrettanto vecchio sistema industriale che per la maggior parte non esiste più.
La lezione che se ne trae, è che è inutile programmare, investire, rischiare, perché cambiano le regole del gioco ad ogni giro di carte e ad ogni rimpasto di governo.
Non siete credibili al sistema paese. Non siete credibili ai cittadini.
Renzi prima di andare in europa a elemosinare un po’ di fiducia barattandola con la riforma costituzionale, dovrebbe domandarsi quanto è credibile agli occhi degli italiani. Il cosidetto spalma incentivi riscrive delle regole, aprendo le porte a contenziosi che ricadranno sulle future generazioni secondo quel principio non scritto di una politica di piccolo cabotaggio in base al quale la cosa importante è giungere alle prossime elezioni.
Ma la scarsa lungimiranza del Governo non si ferma al giochino di riscrivere le regole con effetto retroattivo. Anche altri settori dell’energia e delle rinnovabili verrebbero penalizzati. Pensiamo all’articolo 23 che prevede degli incentivi per le unità termoelettriche sopra i 50 MW presenti in Sicilia. La diffusione delle rinnovabili, assieme al ridimensionamento di un sistema industriale “energivoro”, ha reso poco redditizi produzione e trasporto di energia. Per ovviare a questo, i gestori del servizio scaricano i costi di produzione sui consumi notturni con una grave penalizzazione per gli utenti. In pratica in questo decreto mentre si disincentivano le rinnovabili vengono invece incentivale le fonti fossili.
Si tratta di un problema reale che però non si risolve scaricando i costi su tutta la collettività per le generazioni a venire, o con interventi tampone. E’ un problema da affrontare con un processo di riqualificazione, processo che richiede una visione d’insieme e una buona dose di coraggio: qualità che scarseggiano tra i banchi del governo. Ma questi non sono gli unici esempi di un provvedimento che in alcuni casi si accanisce con le rinnovabili. L’articolo 24 del decreto, ad esempio, penalizza a tutti gli effetti i sistemi di efficienza di utenza, quegli impianti prevalentemente a fonti rinnovabili rivolti per lo più all’autoconsumo. In questo caso, la realizzazione di questi sistemi verrebbe reso meno conveniente. Ai produttori-consumatori verrebbe chiesto di pagare una parte degli oneri del sistema elettrico, calcolati in base al consumo, indipendentemente dalla provenienza dell’energia. Ma, nella sostanza, questo Governo ha ampiamente dimostrato di avere fastidio per le rinnovabili e, nel complesso, anche di essere molto confuso sulle questione energetiche.
Nell’annunciato decreto Sblocca Italia, quello – per intenderci – che ha fatto dire al ministro Lupi, con entusiasmo e con un linguaggio che ricorda i western all’italiana, “servirà per far rialzare la testa al Paese”, viene riproposta la leggenda degli idrocarburi da estrarre dal nostro sottosuolo. Altro che rinnovabili. Giusto per restare nell’ambito tanto caro al Premier degli slogan, si passera direttamente dallo sblocca Italia allo sblocca trivelle. Come gruppo 5 Stelle siamo per l’energia pulita e per un’attenzione di gran lunga maggiore, rispetto a questo governo, nei confronti delle rinnovabili. Siamo per non penalizzare la diffusione di comportamenti virtuosi e di quelle buone pratiche che, nonostante la costante assenza delle istituzioni, sono pur presenti nei nostri territori.
Siamo per la carbon tax, siamo per non penalizzare gli impianti fotovoltaici anzi si deve favorire la loro installazione ed è per questo che abbiamo chiesto di applicare la rendita catastale solo per quegli impianti che superino i 7 kWp. Vogliamo il fotovoltaico, lo vogliamo nel rispetto dell’ambiente e nel rispetto delle tasche dei cittadini italiani. Siamo per la riqualificazione energetica degli edifici, che avrebbe conseguenze più che positive sulla riduzione delle dispersioni e metterebbe in moto il comparto delle costruzioni con ricadute straordinarie sui livelli occupativi.
Ma siamo soprattutto per una visione d’insieme delle questioni energetiche che superino una volta per tutte gli interventi estemporanei, provvisori, la cui efficacia viene spesso contraddetta, come sta accadendo in questo caso, da interventi successivi che riscrivono le regole con efficacia retroattiva. Il settore energetico sta conoscendo un profondo mutamento, cade l’esigenza di mantenere vecchi sistemi, legati a un vecchio modello di sviluppo industriale, se ne propongono di nuovi. Le realtà produttive dei nostri territori è un esempio importante anche di grandi spinte innovative, dove si sperimentano e si mettono in campo nuovi metodi di produzione dell’energia. Una spinta e un interesse per l’innovazione che spesso, sotto il profilo normativo, non sono sorretti dalle istituzioni pubbliche.
Spesso si opera in assenza di criteri ed indirizzi anche nei casi di potenziali criticità e rischi per le persone e le cose. Pensiamo al gas naturale liquefatto per il quale solo di recente si è insediato il gruppo di lavoro che dovrà avviare la stesura di una prima bozza della Piano strategico nazionale sull’utilizzo del GNL. Nel frattempo, e in assenza di criteri antincendio, stanno sorgendo diversi impianti di stoccaggio e rigassificazione a supporto del settore industriale e del settore civile. E questa situazione di incertezza riguarda diversi aspetti, anche dove è forte il rischio che si facciano strada metodi di produzione che in futuro si potrebbero rivelare dannosi e pericolosi.
Il governo si deve mettere in testa che il settore energetico è quello su cui si gioca la ripresa economica del paese e la stabilità futura delle nostre aziende, nonché la qualità del nostro ambiente e delle nostre città. Non si può parlare di competitività quando manca un vero Piano energetico. Quando manca una visione complessiva del settore, quando non si è in grado di individuare gli obiettivi e le risorse necessarie per raggiungerli. E, soprattuto, quando manca il coraggio di fare delle scelte. Quando si elabora un Piano energetico questo non può essere disgiunto dal Piano industriale, ad esso profondamente correlato.
Per affrontare la crisi o, per usare un’espressione cara al Ministro Lupi, per far rialzare la testa del Paese”, dobbiamo pianificare e programmare la riqualificazione del settore industriale e manifatturiero. Oggi non possiamo permetterci di rimandare le scelte, dobbiamo avere il coraggio di decidere che modello di sviluppo vogliamo seguire. Se l’intento, come emerge da questo e dai diversi decreti del governo, è quello di salvaguardare vecchie logiche e vecchi standard produttivi. Oppure se è quello di riqualificare un sistema verso modelli più rispettosi dell’ambiente.
Ci vuole coraggio, una merce rara tra i banchi del governo, ma necessaria per andare oltre lo stato di pura sopravvivenza. Questa è la strada che noi intendiamo percorrere.
fonte: www.andreavallascas.it
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